Molto spesso, durante la valutazione delle pratiche di rinnovo della cessione del quinto, noto che, esaminando le buste paga dei clienti, dopo la voce “trattenuta cessione” con la relativa rata, compare nella riga successiva “gestione pratica” o “costi gestione” con un importo variabile tra i 2 e i 10€.
Questa voce di addebito rappresenta il costo che alcune aziende, fortunatamente una minoranza, impongono ai propri dipendenti per la gestione dei pagamenti delle rate alla finanziaria.
Questo addebito non è legittimo, poiché non è previsto né dalla legge né dal contratto di cessione del quinto o prestito con delega che avete firmato.
A chiarire la situazione ci ha pensato la Corte di Cassazione con la sentenza n. 22362 del 2024, relativa a una significativa controversia tra una società e alcuni dipendenti.
NELLO SPECIFICO DELLA VICENDA
In particolare, alcuni dipendenti dell’azienda avevano esercitato il loro diritto sottoscrivendo contratti di cessione del quinto per ottenere finanziamenti.
La cessione del quinto è un tipo di prestito personale che consente a dipendenti e pensionati di ottenere un finanziamento, con le rate trattenute direttamente dalla busta paga o dalla pensione.
La normativa prevede che il datore di lavoro sia obbligato a trattenere mensilmente la quota dello stipendio ceduta e a versarla direttamente all’istituto bancario scelto dal dipendente.
Tuttavia, nel caso in esame, la società aveva deciso di trattenere somme aggiuntive dagli stipendi dei dipendenti a titolo di copertura dei costi di gestione amministrativa derivanti dalla cessione del quinto.
I dipendenti coinvolti ritenevano tali trattenute illegittime e portando l’azienda in tribunale avevano ottenuto un risarcimento sia in primo grado che nel successivo appello richiesto dal datore di lavoro.
La società, nonostante le decisioni del tribunale in primo grado e in appello, sosteneva che le trattenute erano legittimate dalla necessità di coprire gli oneri amministrativi legati alla gestione della cessione del quinto, di conseguenza ha deciso di rivolgersi alla Cassazione.
LA DECISIONE DELLA CORTE DI CASSAZIONE
La Corte di Cassazione stabilisce, pur riconoscendo che la forma di prestito in questione possa comportare un onere aggiuntivo per l’amministrazione, tale onere non giustifica la trattenuta di costi aggiuntivi ai dipendenti.
Facendo riferimento agli articoli 1175 e 1375 del Codice civile, i quali stabiliscono che l’obbligo del datore di lavoro di eseguire tutte le prestazioni strumentali o accessorie necessarie per soddisfare l’interesse del creditore deve essere svolto nel rispetto dei principi di correttezza e buona fede.
Questi principi impongono che ogni attività accessoria o strumentale debba essere svolta in modo da non gravare ingiustamente sul lavoratore, il quale non può essere chiamato a sostenere spese che sono riconducibili a responsabilità gestionali del datore di lavoro.
Inoltre, la Corte ha richiamato la sentenza n. 24640 del 13 settembre 2021, la quale aveva già stabilito che la società non può pretendere il rimborso dei costi di servizio aggiuntivo, a meno che non ne dimostri l’insostenibilità rispetto alla propria organizzazione aziendale.
Infine, la Corte di Cassazione ha confermato l’obbligo per la società di restituire le somme trattenute ingiustamente ai dipendenti, rigettando in modo definitivo il ricorso e condannando la società al pagamento delle spese processuali.
Questa decisione stabilisce un precedente importante, riaffermando i diritti dei lavoratori di non essere gravati da costi amministrativi che derivano da pratiche necessarie per il rispetto delle loro scelte finanziarie legittime, come la cessione del quinto dello stipendio.